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Archive for the ‘Storico’ Category

– Uomini senza Legge – 2011 – ♥♥ e 1\2 –

di

Rachid Bouchareb

Uomini senza Legge ha sicuramente tutte le carte in regola per essere considerato un buon film. Ha la fotografia che è tipica dei film noir e che grazie alle sue tonalità cupe comunica allo spettatore quel senso di grigiore e difficoltà che derivano dalle ingiustizie e dalle condizioni politiche e sociali di un popolo alla ricerca della propria identità e indipendenza. Il periodo storico che fa di sfondo ai tre fratelli algerini protagonisti è quello dell’ indipendenza algerina e della difficile, quanto controversa operazione di liberazione attuata dal movimento algerino FLN, contrastato dal Main Rouge francese, partorito proprio per contrastare il primo. Il regista Rachid Bouchareb però non si accontenta di raccontare solamente il punto di vista storico degli avvenimenti, ma desidera arricchirli ulteriormente con toni da epopea familiare, inserendo le vicende e le emozioni personali dei tre fratelli dal ’45 al ’61. Un periodo durante il quale li vedremo lentamente arrendersi alla violenza, nonostante siano spinti da nobili ideali di libertà. Dopo un prologo, dai toni anche fin troppo da romanzo popolare,  che va indietro fino al 1925, quando i fratelli e la loro famiglia sono spossessati della loro terra e assistono all’ uccisione del padre da parte dei coloni francesi, il film infatti passa subito al 1945. Epoca in cui la Francia esulta per la resa tedesca e la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma in Algeria invece una folla di manifestanti indipendentista viene massacrata dallo  stesso esercito Francese. Da quel momento i tre fratelli saranno costretti per motivi diversi a vivere senza legge e senza “patria” per lottare per i loro ideali. I propositi del regista di unire l’ epico al gangster movie quindi ci sono, ma purtroppo il film risulta avere molto spesso ritmi e recitazioni da ottima produzione televisiva più che da cinema. I protagonisti stessi, infatti, sembrano imbrigliati all’ interno dei loro schematici personaggi, dall’ epilogo che sembrerebbe senza alcuna evoluzione o via di fuga. C’è l’ ex soldato reduce dalla guerra in Indocina continuamente turbato dai suoi ricordi di morte e che sembra non riuscire a liberarsi dal suo istinto omicida; l’ attivista politico rivoluzionario che si trova a confondere il fanatismo violento con i veri ideali di rivoluzione; e il fratello più giovane e più opportunista che pensa più alla sua fortuna economica che agli ideali patriottici. Ma tutti loro sono accomunati dallo spirito di fratellanza che diventa forse il vero filone portante delle vicende familiari. Lo sguardo di Bouchereb è di conseguenza molto pacato e fino alla fine tende ad evidenziare che gli estremismi violenti in una rivoluzione sono sempre sbagliati. Non a caso tiene in vita il fratello che più è lontano dalla lotta ad ogni costo per l’ indipendenza. Quindi nonostante la ribellione e l’ andare contro la legge, nel loro caso, sia l’ unica strada possibile ciò che lo spettatore finirà per leggere sarà che è sempre meglio mediare con i propri nemici prima che combatterli ciecamente con ogni mezzo possibile. Ecco che quindi il film finisce per essere più un film sulla fratellanza, con un finale strappalacrime, e con ben poco approfondimento sulle vere vicende storiche algerine. Più un film che fa smaccatamente un occhiolino ai gangster movie di Brian de Palma o di Scorsese che un vero e proprio film con una sua ben costruita identità.

(1925: Morte del padre)
 
( Fine anni '50 in Francia)

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– Noi Credevamo – 2010 – ♥♥♥♥ –

di

Mario Martone

Il revisionismo storico. Questo parolone che in quest’ ultimo anno ha dominato la scena televisiva e cinematografica Italiana sembrerebbe, per le case distributrici e forse anche per il Ministero della cultura che non riguardi il film di Mario Martone. In realtà, Noi Credevamo, è senza alcun dubbio l’ opera cinematografica che più si avvicini a tale concetto, nonostante ben pochi Italiani al cinema avranno potuto vederlo, poichè non ha visto luce in esse per neanche un’ intera settimana. Martone con questo film immerge lo spettatore in un trentennio molto importante per l’ Italia dell’ 800 , pieno di controversie e di revisioni, nei confronti di coloro che credevano fermamente di “fare l’ Italia”. Il film è sicuramente scomodo già per il fatto che sceglie come eroi tre giovani del Sud Italia che spinti dalla loro amicizia e dai loro ideali sono coinvolti nel progetto Mazziniano della Giovine Italia. Lo è poi soprattutto per lo sguardo decisamente alternativo che apporta al Risorgimento, quello in cui il popolo più che essere attivamente coinvolto nel decidere il proprio futuro, finisce per essere lo stesso uno spettatore dei fatti, decisi dai pochi nomi illustri di quegli anni. L’ argomento viene trattato con una serietà e precisione alla quale non siamo abituati in Italia vedere solitamente in un film Storico. Il film viene suddiviso in quattro capitoli che lo rendono maggiormente flessibile, data la sua lunga durata di ben 204 minuti. Martone sceglie di concentrare l’ attenzione della sua macchina da presa sui personaggi , le atmosfere ma soprattutto le passioni che coinvolgevano i protagonisti di quel periodo storico, finendo inevitabilmente per evidenziare lo spirito controverso di quella particolare epoca storica. Proprio questi suoi personaggi però non sono neanche per un solo istante eroicizzati (meccanismo che molto spesso viene sviluppato in un film storico), ma finiscono sempre per essere principalmente esseri umani con dei loro personalissimi valori e con le loro contraddizioni del caso. Il Risorgimento, visto da Martone, non è quindi quel glorioso momento che vede protagonisti i ben noti Garibaldi o Cavour (mai mostrati in questo film) , ma è invece quell’ epoca controversa fatta da uomini appartenenti a vari clan, associazioni o sette, tutte legate tra loro ma non necessariamente sulla stessa lunghezza d’ onda. Luigi Lo Cascio è perfetto e commovente nell’ interpretare Domenico, un giovane repubblicano che ha un fortissimo ideale rivoluzionario per il quale lotterà e soffrirà per tutta la vita, ma che  però nel finale sarà costretto a disilludersi nel vedere la sua Italia unita sotto il marchio dei Savoia e non del popolo. La caratterizzazione del suo personaggio è dettagliata e meticolosa a tal punto da non poter risparmiare allo spettatore alcuna emozione e costringerlo a vivere con lui quegli ideali così forti. Tutto il cast fa comunque un ottimo lavoro di compartecipazione in un film dove sono proprio tutti i comprimari a rendere l’ azione speciale e non soltanto il ruolo del protagonista. Non solo storia quindi, ma anche un’ ottima lezione di cinema ci arriva da Mario Martone: quella che ci insegna a capire che un film veramente completo è fatto di un cast che lavora insieme e non soltanto di un protagonista che regge le fila dell’ intera struttura narrativa dell’ opera. Non è un caso che un attore della statura di Toni Servillo (che molto spesso si è ritrovato da solo a reggere le fortune di interi film) qui sia “relegato” solo a pochissime pose , ma tutte necessarie e intense e che esprimono alla perfezione l’ indole del suo personaggio (Giuseppe Mazzini). La recitazione voluta dal regista richiama spesso il metodo teatrale e quello della letteratura, caratteristica che ancor più fa immergere lo spettatore nell’ epoca ottocentesca. Noi credevamo non è di certo un film di facile visione, ma se si avrà l’ occhio attento ai particolari, ai dialoghi e alle trame narrative storiche non si potrà di certo  non apprezzarlo.

( Esecuzione risorgimentale)
 
( Un Mazzini- Servillo già vecchio a 25 anni)

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– Il Discorso del Re – 2011 – ♥♥♥♥ e 1\2 –

di

Tom Hooper

E’ raro oggi trovare un film  capace di racchiudere al suo interno contenuti che fanno parte della storia, trattandoli con una rara cura che porti lo spettatore ad immedesimarsi con le emozioni dei suoi protagonisti. La balbuzie di Re Giorgio VI (Colin Firth) diventa quindi, non soltanto un problema comunicativo ma è l’ origine di un profondo senso di inadeguatezza del suo personaggio chiamato a causa dell’ imminente inizio della Seconda Guerra Mondiale a rappresentare il leader istituzionale di un’ Inghilterra ormai futura preda dell’ Asse di Hitler. Il protagonista Colin Firth ( candidato all’ Oscar 2011 come miglior attore protagonista) è impeccabile nel suo ruolo riuscendo a manifestare un personaggio  impacciato e ingabbiato nel ruolo di chi vive uno squilibrio comunicativo che ha radici interne originate da un’ educazione molto repressiva. Il regista Hooper delinea un momento delicato della storia britannica nel quale non è solo l’ imminente ingresso in guerra a essere protagonista ma anche l’ evoluzione dei mass media e l’ avvento della radio come mezzo di comunicazione che è in grado di restituire al popolo un ritorno auditivo, e quindi un contatto con l’ autorità monarchica che rappresenta la Gran Bretagna. Una radio che diventa simbolo di unità nazionale ma che si cela dietro un microfono che per chi è balbuziente come  Re Giorgio VI diventa un enorme mostro che catalizza la sua attenzione paralizzandolo. La sceneggiatura, scritta da David Seidler, che ha sperimentato la balbuzie sulla sua persona, essendo diventato balbuziente da bambino durante la guerra, è misurata e mai superflua. E’ costruita molto sulla relazione tra il re “Bertie” e il suo terapeuta\logopedista, interpretato superbamente da Geoffrey Rush, e sul lento processo che condurrà il paziente reale a venir fuori dalla sua nevrosi blindata dietro ricordi dolorosi d’ infanzia e una rigida impostazione dettata da formali buone maniere. Ecco che allora diventa fondamentale guardare questo film in lingua originale per gustarsi pienamente la bravura dei due attori durante i loro siparietti colmi dell’ essenza del conflitto di classe, ma anche per apprezzare la bravura di Colin Firth nell’ interpretare i suoi momenti di spasmi otorinolaringoiatrici e le sue interruzioni fonetiche con immensa credibilità visiva e uditiva. Interessanti sono poi anche le riprese a mano delle quali Hooper si avvale per trasmettere l’ ansia del suo protagonista allo spettatore, senza però mai eccedere ma limitandosi ad essere prerogativa solo di quegli stati d’ animo. Sapienti sono anche le scelte di alcune inquadrature che spesso tengono il protagonista Colin Firth ai margini di essa, rappresentando perfettamente i suoi stati d’ animo, o anche l’ utilizzo frequente di riprese dal basso o le deformazioni del grandangolo. Il Discorso del Re è un film che al suo interno è un manifesto di quella che è stata la fine di un mondo fatto di formalismi e l’ inizio (proprio grazie l’ avvento dei nuovi mass-media) dei favoritismi nei confronti di coloro che sanno come parlare alle persone in barba alla qualità e alla sostanza delle loro parole. Emblematica è infatti la sequenza nella quale lo stesso Re Giorgio VI pur non comprendendo ciò che il suo futuro nemico Hitler dice durante uno dei suoi discorsi ne rimane impressionato constatando che “sembra saperlo dire piuttosto bene”. Un film quindi sulla forza della parola nella comunicazione di massa, ma anche un’ opera che non dimentica di mettere in luce che l’ empatia e la fiducia reciproca è una prerogativa essenziale per chi vuole affrontare i suoi problemi non chiudendosi rigidamente in sè stesso.

( Prima prova di registrazione)

( Il Discorso finale del Re)

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– La Papessa – 2010 – ♥ e 1\2 –

di

Sönke Wortmann

La prima cosa che di certo non sfuggira all’ occhio degli spettatori de La Papessa è la lunghezza di questo film. Solo per raccontare l’ infanzia della sua protagonista Giovanna, diventata poi papa Johannes Anglicus, sono necessari per Wortmann ben quaranta minuti. Il Clero messo in evidenza in questo film è decisamente messo in ginocchio e viene ritratto come dominante in una società medievale, intento a sollazzarsi tra le sue ricche libagioni e i suoi anelli d’ oro. Forse un pò come adesso anche. E’ forse per questo che ieri come oggi le contraddizioni imperano nel mondo clericale. Contraddizioni come quelle che vi sono nella storia di questa Giovanna entrata nel Vaticano nell’ 847 sotto le mentite spoglie di un frate che ha l’ intento di curare papa Sergio II (interpretato da un alquanto poco credibile John Goodman).  Il film di Wortmann ha i suoi più evidenti punti di forza nella scelta della sua attrice, la Johanna Wokalek che già aveva sorpreso ne La Banda Baader-Meinhof, che con la sua fisicità e i suoi lineamenti un pò mascolini è sempre convincente nella sua parte. D’ altro canto invece la regia risulta essere decisamente piatta e televisiva, priva di movimenti di macchina un pò più sorprendenti, quelli che un film storico come questo esigerebbe maggiormente. Se certo poi di Storia si tratta. Perchè le vicende della Papessa Giovanna sono ancora oggi una Leggenda , e anche gli Storici non di parte del clero non sono poi così convinti della veridicità dell’ esistenza di queste vicende. La scrittrice americana Donna Woolfolk Cross, autrice del romanzo Pope Joan (1996) dal quale questo film ha preso spunto, è invece una accanita sostenitrice di tali vicende e soprattutto del fatto che queste siano state occultate in diversi modi dalle Chiesa. In definitiva è difficile sostenere se un film come questo possa essere definito un film storico o soltanto una ricostruzione di una leggenda popolare poi trattata in un bestseller americano alla Dan Brown. La ricostruzione ambientale e scenografica si salva perchè nonostante tutto riesce a dare verosimiglianza a quello che era il Medioevo e soprattutto i primi 40 minuti del film ambientati in una ricostruzione di un villaggio della Britannia danno ben l’ impressione del tipo di società patriarcale che vigeva durante quegli anni. Molti lo hanno accostato al recente Agorà di Amenabar, forse per l’ indole erudita e pensatrice che accomuna entrambe le protagoniste, ma a mio avviso c’è un abisso tra i due film: quello che narra le vicende di Ipazia può fregiarsi di essere un’ opera da cinema, mentre questa è solo una prolissa ricostruzione che ha più le sembianze di una miniserie in due parti che di un film. Se poi si aggiunge che in questo film vi è una sottotrama romantica che non può che essere di sicuro appeal e di scarso interesse storico allora ecco che si trovano altre ragioni che non danno la possibilità a questo film di spiccare il volo. Ultimo, ma non indifferente motivo, che abbassa il livello di questo film è l’ impiego di un attore come John Goodman, condannato dalle sue sembianze ad interpretare ruoli comici, questa volta utilizzato per interpretare il serio ruolo di Papa Sergio. E guardandolo sarà difficile non sorridere, per quanto lui si sforzi di essere serio e professionale nella parte che gli è stata assegnata.

( Papa John Goodman ???)

( La nomina a "Papessa")

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– Agorà – 2010 – ♥♥♥♥ –

di

Alejandro Amenabar

Ciò che sorprende a prima vista Agorà è la ricostruzione storica dell’ antica  Alessandria e come le intere vicende (suddivise in due differenti momenti temporali) siano tutte predominate da inquadrature all’ interno della sua Agorà (la piazza principale delle greche “polis”), che la fanno diventare la protagonista (e non solo sfondo) indiscussa degli avvenimenti che hanno al centro la filosofa Ipazia, ultima erede dell’ antica cultura greca. Nel film, inoltre, si snodano due differenti vicende una più scientifica che riguarda le scoperte di Ipazia in merito al sistema eliocentrico che porta la terra a ruotare intorno al sole, e una seconda di matrice più religiosa che mostra i sanguinosi e violenti scontri che i cristiani intraprendono prima contro i pagani e in un secondo momento contro gli ebrei. Ottime le sequenze in cui Amenabar ci mostra questi scontri dall’ alto portandoci a scoprire un’ interessante metafora degli uomini che accecati dalla religione e facendosi forza del gruppo diventano quasi come formiche in preda alla frenesia della distruzione della Biblioteca di Alessandria. Sicuramente più commerciale dei suoi film precedenti, quest’ ultimo film di Amenabar riesce comunque a imprimere realismo alle vicende storiche e ponendosi sicuramente ai vertici dei suoi colleghi del genere storico mainstream . Siamo lontani quindi dalle varie critiche mosse alla chiesa in maniera fantascientifica come Il Codice Da Vinci di Ron Howard o in maniera troppo appariscente come ne Le Crociate di Ridley Scott, qui si narra la storia, nella quale il cristianesimo ai suoi albori inizia a plagiare le menti dei più deboli od oppressi (come lo schiavo Davus) e la sua curia comincia a far inginocchiare i potenti politici di quell’ era al suo volere. Emblematica la figura proprio dello schiavo Davus che invece di cercare la libertà nella chiara espressione dei suoi sentimenti nei confronti della sua padrona Ipazia, decide solamente di mutare schiavitù diventando schiavo dei parabolani cristiani e della loro violenza. Davus diviene quindi la perfetta metafora dell’ uomo schiavo dentro che spesso preferisce non andare oltre i propri limiti alla ricerca di un’ ambita, ma difficile libertà ma preferisce sempre scegliere la via più semplice (molto bella la scena notturna nella quale inizia a pregare Dio per far si che Ipazia non si conceda a nessun altro uomo se non lui). Della figura di Ipazia storicamente non si sa molto e il regista di certo ci mette del suo nella ricostruzione del suo personaggio (ottimamente interpretato da una sobria Rachel Weisz), facendo di lei un esempio di lotta per la difesa della ragione e della scienza contro quella che molte volte da fede religiosa nell’ uomo si tramuta in ottusità e fanatismo violento. E’ un film dal valore molto femminista questo Agorà, che pone Ipazia al centro di una società maschilista che relega la donna al mutismo e all’ impossibilità di esprimere qualsiasi opinione sulle cose che contano. Un film in costume che può apparire commerciale ma che racchiude al suo interno profondi significati storici e umani.

( La follia della Religione)

( E la dedizione della ragione)

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– L’ Uomo che verrà – 2010 – ♥♥♥♥ e 1\2 –

di

Giorgio Diritti

Il cinema ci ha ormai abituato agli sguardi sulla storia, spesso elementari, superficiali o da fiction televisiva, così tanto che quando siamo difronte ad un film come questo di Giorgio Diritti non si può restare indifferenti. Il regista noto per Il Vento fa il suo giro, non sceglie come molti avrebbero già fatto di rivisitare una vicenda storica ma ci narra una sua storia, un suo script che alla fine tende a precisare di pura immaginazione, ma che è perfettamente inserito in una vicenda storica dolorosa della nostra Italia: L’ eccidio nazifascista di Montesole, uno dei piccoli borghi vicino al ben più noto Marzabotto . Diritti si pone a distanza da qualsiasi posizione ideologica e assume quella degli innocenti, in questo caso dei bambini, e come ispira il titolo stesso anche di quelli che dovranno nascere. Le vicende si svolgono infatti durante i nove mesi antecedenti alla nascita del fratellino della piccola Martina (l’ espressiva Greta Zuccheri Montanari). La telecamera resta sempre a discreta lontananza dal sangue, preoccupata di analizzare ben altri meccanismi, come l’ impotenza dei suoi protagonisti agli avvenimenti o lo sguardo innocente di Martina su quanto di inevitabile e truce sta per accadere. Tutti i protagonisti del film sono pervasi da un’ aura di estremo realismo, ripresi nelle loro vicende quotidiane e arricchiti dalla scelta del regista di usare il loro dialetto contadino. L’ uomo che verrà è dalla parte degli innocenti e degli impotenti che sono costretti a subire una guerra che non hanno scelto di combattere e che si trovano soltanto tra i due fuochi dei nazifascisti e dei partigiani. Le due parti di questa guerra sono infatti narrate con quasi pari crudeltà: quella ben più nota dei nazisti viene accompagnata da quella partigiana rivelata in una fredda sequenza che ci mostra come il più gentile tra i soldati delle SS viene ugualmente freddato senza pietà. In mezzo a queste due parti attive della guerra  vi sono coloro che si vedono costretti a rifugiarsi nella fede della Chiesa che però non garantisce loro un certo rifugio e perde cinematograficamente quel connotato salvifico che spesso nei film di guerra assume. Seguendo uno schema cinematografico che trae spunto da opere di memoria Pasoliniane Diritti si concentra sui riti quotidiani dei suoi personaggi, le loro concezioni prettamente arcaiche e le loro abitudini. Mescola sapientemente un cast di attori non professionisti con ottimi interpreti del panorama recitativo italiano ( Maya Sansa, Alba Rohrwacher e Claudio Casadio) creando uno sguardo corale colmo di particolari e sfaccettature spesso ignorate. Un pò come il bellissimo Katyn, documenta le atrocità della guerra con la freddezza necessaria delle tonalità fotografiche e con una cura dettagliata delle location (ogni scorcio paesaggistico sembra uscito da un film di Olmi) e degli oggetti di scena. E’ quasi un film muto (come la sua piccola protagonista Martina, divenuta muta in conseguenza ai traumi della guerra) l’ opera di Diritti che filma con pochissime parole la quotidianità dei morti, di chi non può più raccontarci ciò che veramente è avvenuto in quei momenti. Per ricreare tutto questo il film si avvale delle vere testimonianze e di documentari come quelli di Carlo Di Carlo. Il finale accende il lume della speranza dopo un oceano di dolore ed estremamente catartico si spegne in una istantanea perfetta sulla quale i titoli di coda che scorrono sono da contemplare per rendere onore a coloro che hanno lavorato dietro a questa ottima creazione. La speranza di noi spettatori è quella di vedere certe realtà del nostro passato riacquistare una voce attiva nella nostra memoria. Con la speranza che” l’ uomo che verrà” dentro di noi, nel futuro, possa essere sempre migliore ma pur sempre memore di certe dolorose pagine di disumanità.

( Una tragica prima comunione)

( L' inevitabile alle porte)

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– La Prima Linea – 2009 – ♥♥♥ –

di

Renato De Maria

Avrebbero voluto eliminarlo. Non farlo giungere nelle sale cinematografiche. Ma alla fine La Prima Linea di Renato De Maria sembra avercela fatta a glissare tutte le polemiche che lo additavano come un film che fomentava il terrorismo italiano. Accuse lanciate da persone che in mia opinione dovrebbero parlar maggiormente del terrorismo psicologico che può derivare dal vietare l’ uscita di un film come questo. Il film parla di un pezzo di storia italiana: quello post Sessantotto nel quale le speranze di molti italiani si erano tramutate nella disumanizzazione violenta del terrorismo spesso conosciuto sotto il nome dell’ Organizzazione delle Brigate Rosse.Questa volta è tutto visto attraverso il racconto in prima persona di Sergio (Riccardo Scamarcio), uno dei principali esponenti di Prima Linea, organizzazione che in quel periodo partendo dai picchetti dopo il lavoro si è trovata  a condurre una battaglia armata non più sostenuta dai sogni e le aspirazioni di quel ceto operaio del quale tanto inizialmente erano i difensori. Se spesso è capitato di trattare cinematograficamente argomenti come questo da un punto di vista più globale e nazionale, De Maria preferisce narrarlo dal punto di vista emotivo e psicologico del suo protagonista mettendo il punto sulle aspirazioni e solitudini dei singoli uomini più che sugli effetti politici delle loro azioni. Il film, che vanta la produzione dei noti fratelli francesi Dardenne, è un percorso introspettivo  nei confronti di tutti gli errori e gli omicidi di cui Sergio si assume le massime responsabilità. E’ la storia di un uomo che dopo aver visto sulla sua pelle fino a dove l’ essere umano può spingersi nel perdere la propria umanità per difendere un ideale di un mondo migliore, sogna solo di voler scappar via con la sua donna amata (Giovanna Mezzogiorno) rinchiusa in un carcere di massima sicurezza. La sceneggiatura, “liberamente ispirata” al libro del vero Sergio Segio La Miccia Corta, non corre mai l’errore però di porre l’ enfasi sulla relazione amorosa dei due protagonisti preferendo parlare della loro quotidianità di uomini che hanno scelto di rinchiudersi in delle piccole case per organizzare crimini per loro giustificati da un ideale. Riccardo Scamarcio , continua a dare mostra dei suoi miglioramenti recitativi, interpretando un ruolo introspettivamente non semplice in maniera spontanea, comunicativa ma al tempo stesso glaciale. Al contrario Giovanna Mezzogiorno sembra ricadere negli stereotipi isterici dei suoi “soliti” personaggi, anche se si preferisce di gran lunga nella prima parte del film, quella che anticipa la fase dell’ innamoramento del suo personaggio. Il film pecca solo forse di uno sguardo più collettivo e più d’ insieme dei suoi personaggi. Di una costruzione psicologica più approfondita anche di Susanna Ronconi che infondo è la protagonista femminile delle vicende. Del suo passato si sa poco (e anche l’attrice riesce a farcelo capire ben poco limitandosi a sguardi freddi e discorsi atoni), se si esclude quell’ unica telefonata fatta alla madre. Solo Sergio è più dettagliato e curato, meritatamente arricchito da Riccardo Scamarcio: è un personaggio che riesce ad analizzarsi durante la sua escalation sovversiva che ha il culmine nell’ omicidio del giudice Alessandrini (definito anche da loro stessi un giudice buono) . Non è un film facile perchè l’ argomento non è facile. Si può rischiare di cadere nello scontato. E a meno che non si vogliano imboccare strade più visionarie e poetiche come in passato fece Marco Bellocchio nel suo Buongiorno Notte, non è facile mantenere un certo realismo nel descrivere la prigione interiore di personaggi braccati oltre che dallo Stato soprattutto da loro stessi. Ma soprattutto condannati alla loro solitudine e ai loro rimpianti.

( Il Punto d' inizio: L' arresto di Sergio)

( Evasione)

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    Locandina La Nobildonna e il Duca

    – La Nobildonna e il Duca – 2001 – ♥♥♥♥ –

    di

    Eric Rhomer

Dopo un periodo di retrospettiva rhomeriana, giungo finalmente alla visione de La nobildonna e il duca (L’inglese e il duca) e mi accorgo di essere davanti a un film assolutamente senza precedenti. Rhomer, che in tutta la sua filmografia precedente a questo è sempre stato pur diversamente dagli altri comunque appartenente alla scuola di cinema della nouvelle vague ossia della rappresentazione di situazioni e ambienti naturali, sovverte i suoi abituali schemi di regia e compone una opera d’arte difficile e complessa, in cui a brillare e a rimanere nel cuore dello spettatore certamente non sono le scene in interni in cui la realmente esistita scozzese e ‘realista’ Grace Elliott, in trasferta francese, entra nel vivo della vibrante Rivoluzione Francese. A rimanere impresse sono le numerose tavole prospettiche dipinte da Jean Baptiste Marot che ritraggono la Parigi del 700 e che al suo interno, grazie al digitale e alla computer grafica, finalmente Rhomer è riuscito ad integrare con azione e attori creando un piccolo kolossal politico francese che ha avuto in mente per una decina di anni. Il risultato è un ibrido di tecnica in cui si uniscono la moderna arte del compositing e l’arte sublime del fondale appartenente al cinema classico – ma ad appartenere a questo sono anche le inquadrature ravvicinate degli attori e la loro stessa recitazione. Il risultato è un film che si dilunga in chiacchiere indiscutibilmente tendenti all’annoiare il pubblico medio, come tutto il cinema Rhomer, ma trattasi di chiacchiere solo in apparenza futili poiché in tutta l’opera di questo regista fuori dalle righe i suoi personaggi sono esseri pensanti che per forza di cose devono scontrarsi con la dura realtà sociale a cui appartengono pur non sentendovisi integrati. Un errore che si commette spesso davanti ai suoi film è proprio quello di osservarne oggettivamente i protagonisti e reputarli incapaci e bloccati dalla ragione, insomma considerarli pazzi. Rhomer, come il più grande entomologo, riesce invece a creare delle psicologie, cosa assai rara nel cinema odierno, e diventa inevitabile per il godimento e la comprensione del film immedesimarsi nella vicenda, anche se può risultare difficile in quanto viene stavolta narrata dal punto di vista di chi la Rivoluzione la critica. Il finale, in cui pullulano vari attori del cinema rhomeriano in alcuni gustosi cameo, è appagante come tutta l’estetica del film, disconosciuto aimè dalla patria di Rhomer, ma fortunatamente lodato a Venezia. Certo, non è Barry Lyndon, ma comunque nell’ambito del cinema in costume si offre una ricostruzione dell’epoca narrata stranamente più veritiera di quando si ricostruisce in fiction nei teatri di posa Hollywoodiani o di Cinecittà.

( La presa della Bastiglia... da molto lontano)

(Grace finisce in prigione)

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– La Battaglia dei Tre Regni – 2009 – ♥♥♥ –

di

John Woo

John Woo ritorna a casa e lo fa stupendo il cinema cinese con un kolossal da ottanta milioni di dollari, decisamente il film più costoso della storia del cinema della nazione dalla Grande Muraglia. E ciò che vien subito da pensare è che con gli action movie il regista cinese ci sa fare. Reduce da un Mission: Impossible 2 spettacolare ma non entusiasmante come il primo capitolo ha sicuramente dato maggior prova delle sue capacità da regista d’ azione in Face\off. Nella sua ricostruzione della leggendaria Battaglia dei Tre regni, avvenuta nel 208 D.C. durante la dinastia Han, John Woo trasforma anche la guerra in uno spettacolo visivo e musicale che rende le spade , le armature e gli scudi ornamenti coreografici di una danza battagliera. Da noi arriva dimezzato (la durata dell’ originale film in Cina era di quattro ore) ma non perde comunque la furia visiva che il film intende mostrare grazie soprattutto a un montaggio serrato e di ottima fattura. Troppo grossolano l’ uso del digitale che molto spesso non è così realistico soprattutto nella sequenza tanto cara a Woo delle colombe spie che attraversano volando l’ intero campo di battaglia. Ma questa lacuna viene ben compensata dalle ottime capacità recitative dell’ intero cast che nonostante sia spesso costretto a sfoggiare un eroismo cameratesco un pò infantile dato dai loro personaggi riesce sempre a essere convincente. Ci sono poi tutti gli elementi umani pronti a colpire dritto al cuore di ogni spettatore anche se  i profili psicologici sembrano così nettamente tracciati da risultare usciti da una favola eroica per ragazzini cinesi. Il resto è eroismo di chi riesce a vincere una battaglia nonostante l’ inferiorità numerica. Vicende che a noi occidentali ci fanno rimembrare battaglia come quella delle Termomili o di Poitiers. Sembra con questo film che anche la Cina voglia entrare nel mercato delle pellicole ad alto budget che tanto contraddistingue Hollywood. Quelle pellicole destinate al puro intrattenimento visivo realistico, ma che seppur confezionato bene, come in questo caso, restano pur sempre dei prodotti commerciali. Sembrano quindi lontani i tempi di Lanterne Rosse, della sua  fotografia calda (qui sostituita da una più cupa e grigia) e della sua impostazione da cinema  d’ essai. Si lascia apprezzare, in definitiva, La Battaglia dei Tre Regni per le lunghe battaglie rese appassionanti soprattutto per le scaltre strategie militari. Molto meno per la scelta di un software digitale che spesso risulta essere visivamente imbarazzante o per la decisione del mercato cinese di lanciarsi nel mondo dell’ intrattenimento. De gustibus non est disputandum.

(Parte dell' imponente esercito di Cao Cao)

(Il fuoco è l' unico elemento fotografico rosso rimasto al film cinese)

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– Barbarossa – ♥  –

di

Renzo Martinelli

Parlare di Barbarossa, il nuovo film kolossal di Renzo Martinelli voluto tanto dalla Lega Nord, esulandolo dal dibattito politico e dalla sua produzione costata ben 30 milioni di dollari sarebbe impossibile perchè un film va anche giudicato per il suo lato produttivo e non solo come dice il regista brianzolo stesso “se da emozioni o meno”. Tanto per iniziare il titolo è la prima cosa che trae in inganno lo spettatore perchè ci si accorge ben presto che il vero protagonista non è Federico I Von Hohenstaufen detto il Barbarossa (Rutger Hauer) ma l’eroe milanese (peraltro leggendario) Alberto da Giussano (Raz Degan). E l’ intero film è costruito per rendere onore a quel personaggio che non si sa se sia davvero esistito ma che la Lega Nord tanto detiene a modello. Tecnicamente c’è decisamente molto rammarico guardando Barbarossa perchè ci si accorge che è realizzato sicuramente per essere un kolossal con immagini e sequenze di forte impatto visivo. Ma quale è il senso? Perchè viene continuamente ripetuto il motto di memoria Gibsoniana “Libertà” e perchè continuamente vengono propinate agli occhi dello spettatore bandiere di Milano o sottolineato il concetto che la Padania deve unirsi contro la tirannia dei padroni (nel caso del film l’ Imperatore, oggi Roma ladrona) se non a causa del loro significato politico? E’ noto a tutti infatti che nel medioevo di Barbarossa non esisteva nessun concetto di Padania. E’ molto facile quindi realizzare un film con sensazionali seppur scontati effetti visivi, combattimenti alla Braveheart o eroismi alla Giovanna d’ Arco. Ma se poi tutto questo deve finire per essere politicizzato allora che senso ha con il cinema? Ancor di più se i soldi utilizzati per realizzare questo progetto vengono dalla nostra Rai e quindi dalle tasche di noi contribuenti? Il Barbarossa di Martinelli è una continua metafora delle ideologie leghiste soprattutto nella sua sceneggiatura che è il vero tasto dolente dell’ intera opera. Uno script che contiene continui riferimenti alle politiche del Carroccio sia nelle frasi che nelle ricostruzioni delle location (quando Barbarossa arriva a Roma la trova afflitta dalla peste). Ne sono un esempio frasi come: “Milano è la porta per la Sicilia” o ” Non portateci via i nostri soldi richiesti per le tasse di Roma” o ancora” Dobbiamo unire la Padania in una lega che sia più forte degli stranieri che vogliono invadere le nostre terre” . Il film viene salvato dal totale tracollo solamente dalla presenza di un cast sicuramente al di sopra delle pretese sceneggiative che vanta la presenza di un Farid Murray Abrams (vincitore del premio Oscar per l’ Amadeus di Milos Forman) nei panni del milanese traditore , una Kasia Smutniak che risponde bene alla prova interpretativa di una donna al limite tra la follia e la stregoneria e un Raz Degan doppiatissimo nelle vesti dell’ eroe da Giussano. Ma tra tutti sicuramente il migliore è il noto Rutger Hauer nei panni dell’ imperatore tedesco che affronta con freddezza un ruolo che sicuramente non è caratterizzato come si dovrebbe. E’ infatti anche l’evoluzione psicologica dei personaggi che di certo lascia spazio a non poche perplessità. L’eroe milanese interpretato da Degan infatti scena dopo scena muta sempre di più da un personaggio semplice e pacato a un condottiero assetato di sangue (e di Libertà??!) che sfodera sguardi arcigni e occhiate piene di sete di vendetta. Nei combattimenti Martinelli dà sfogo a tutta l’ ira dei personaggi non badando assolutamente a porre freni alla crudeltà dei corpo a corpo o agli spargimenti di sangue. E se sono più crudeli tanto meglio. Esaltano di più la folla dei facinorosi padani. E purtroppo basta farsi un giro su youtube per constatare quanto questa esaltazione per la violenza, per la lotta e per il sangue sia in voga tra i militanti padani durante la presentazione del Bravehearth della Lega Nord (Barbarossa).

(Bandiere di Milano in bella vista un pò sempre)

( Uno dei frequenti sguardi arcigni di Raz Degan alias Alberto da Giussano)

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