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Archive for the ‘2008’ Category

– The Hurt Locker – 2008 – ♥♥♥♥ –

di

Kathryn Bigelow

In The Hurt Locker la guerra in Iraq è solamente un pretesto, è solo uno sfondo. Ma è una scenografia che delinea in maniera validissima tutto quello che al suo interno questo film cela. In primo luogo le dipendenze dell’ essere umano e quelle passioni adrenaliniche in grado di spingere l’ uomo ad abbandonare la sfera affettiva e sicura della propria vita alla ricerca di quella insostituibile sensazione al confine tra la vita e la morte. Si può chiamarla droga o in questo caso semplicemente dipendenza da guerra. La stessa regista Kathryn Bigelow si affida a quella stessa sensazione, che accompagnava Patrick Swayze & co. in Point Break, e che spesso e in svariati modi è in grado di prendere il sopravvento sulla razionalità umana. Qui la stessa adrenalina è spinta verso la dipendenza dal detonare bombe, a punto tale da arrivare ad amarle. I suoi tre protagonisti hanno tre caratteri che nel mondo militare è decisamente frequente incontrare: c’è il giovane soldato emotivo che tornerà a casa ferito, il giovane di colore che ragiona in maniera estremamente razionale e che sembra indipendente e sicuro ma che cela profonda voglia di crearsi una famiglia e una stabilità e infine l’ addetto a disattivare le bombe e bullo, interpretato dal candidato all’ Oscar 2010 Jeremy Renner. E’ proprio quest’ ultimo che catalizza maggiormente l’ attenzione dello spettatore, invitandolo a riflettere su quella che è diventata l’ America per le nuove generazioni di soldati. Non c’è più quindi quell’ ideale di superpotenza indistruttibile, pieno di eroi capaci di mantenere una doppia vita (quella degli affetti a casa propria e quella della lucidità nell’ affrontare la guerra). Tutto questo è stato sostituito dal desiderio, dall’ irrefrenabile voglia di spingersi sempre per colmare quella sensazione di vuoto affettivo e di valori che contraddistingue molti giovani di questa generazione-Iraq. La guerra e il suo desiderio di farne parte, qualunque sia il ruolo assegnato in essa, diviene nel protagonista Jason la sua vita stessa. Una vita alla quale si sente morbosamente spinto e attaccato, con una dipendenza tale da non poterne fare a meno. La Bigelow in ogni sequenza entra fin dentro le viscere della guerra e ci rende partecipi anche del suono delle pallottole che attraversano la carne umana, dando così una sicura impronta diretta e senza alcun filtro di ciò che accade sullo schermo. Lo spettatore, anche grazie ai movimenti di macchina estremamente dinamici, si troverà catapultato in un horror della guerra e sarà per lui impossibile limitarsi ad osservarlo senza esserne in qualche maniera coinvolto. Sicura forza del film è la sua sceneggiatura, scritta dal giornalista Mark Boal (anche lui candidato all’ Oscar per la Sceneggiatura originale). Boal, grazie alla sua esperienza come inviato sul campo, riesce ad imprimere quella veridicità alla guerra in Iraq spesso vista solamente attraverso la conta dei suoi morti ma poche volte sotto le loro missioni quotidiane, molte volte poco importanti, ma durante le quali la vita dei soldati è costantemente messa in gioco come in una roulette russa dall’ esito incerto. E se anche il risultato di quelle missioni fosse il successo, ci viene mostrato come questo non sia soddisfacente per i soldati ma di come al contrario li ponga dinnanzi alla voglia di affrontare una nuova sfida ben più pericolosa. Degna di nota la sequenza nella quale James di notte si mette alla ricerca dei probabili assassini di un bambino irakeno: ci testimonia con estrema forza di come dietro la realtà mattutina conosciuta dai soldati,  spesso anche l’ unica che è data a loro conoscere, si nasconde una realtà fatta di persone ospitali, con un livello di cultura medio-alto e che comunque tentano di condurre nel migliore dei modi, onestamente la propria difficile vita, messa a rischio dai drogati della guerra.

(Detonazioni sicure)

(L' Ostinazione cieca di James)

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– The Home of Dark Butterflies – 2008 – ♥♥♥♥ –

di

Dome Karukoski

E’ come sempre un peccato che certi film non vengano distribuiti qui in Italia. Il Finlandese The Home of Dark Butterflies (candidato agli Oscar 2009 per la Finlandia) è uno di quei film: duro, sincero e che non perde mai di vista il contatto con la realtà psicologica adolescenziale dei suoi protagonisti. Lascia spesso intravedere attimi di poesia che ben si fondono con la difficile tematica dell’ opera del regista di Cipro naturalizzato finlandese Dome Karukoski. Le vicende narrano di Juhani, un ragazzo che dopo esser inutilmente stato cacciato da tutte le famiglie di adozione viene introdotto in una struttura correttiva situata su un’ isola. Il film si divide in maniera convincente tra i fatti che in tempo reale hanno luogo nell’ isola e una serie di flashback che sono in grado di mostrare allo spettatore il processo di lenta analisi che il ragazzo compie su stesso su un crimine in passato compiuto dai suoi veri genitori e del quale erroneamente se ne è sempre assunto la responsabilità. Il ricorso a tale linguaggio cinematografico (quello del flashback) non è mai banale ma è saldamente legato ai fatti che accadono in tempo reale. Il regista ricorre a tale mezzo solo per far capire le analogie tra gli eventi che accadono al giovane Juhani e quelli passati che altamente influenzano la sua psiche. I personaggi creati intorno al giovane hanno tutti quanti un  ben definito background e riescono a creare un convincente Ensemble di giovani attori. Anche la fotografia è diversamente costruita su due differenti tonalità: una più fredda e dalle tonalità blu scure che caratterizza il passato e una più nitida e circondata sempre di stupendi paesaggi bucolici che riguarda il presente. Ed è proprio la natura che assume un simbolismo chiaro in The Home of Dark Butterflies dove i ragazzi sono costretti per salvare il destino della casa di correzione a sostenere l’ utopistico progetto del direttore Olavi di impiantare un allevamento di bachi da seta. E questo tentativo di nascita (o ri-nascita) sarà ben associato al lento tentativo di Juhani di liberarsi del suo ingombrante passato che non gli permette di vivere adeguatamente la sua vita e  le relazioni sociali, soprattutto quelli con il sesso femminile e la giovane figlia del direttore della quale si è invaghito. E sta in questo distacco finale, da un embrione genitoriale che mentalmente lo bloccava la svolta del protagonista di quest’ opera. Quel distacco che potrebbe portare Juhani a varcare quel mare che lo separa dal mondo, dall’ accettazione di sè stesso. Accettazione che potrà sfociare solamente nella consapevolezza dell’ età adulta.

( Il passato incombe sempre nella vita di Juhani)

(...ma il percorso della speranza è dietro l'angolo)

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– Synecdoche New York – 2008 – ♥♥♥♥ e 1\2 –

di

Charlie Kaufman

Il genio sceneggiativo di Charlie Kaufman è ormai  noto a molti cultori cinematografici. Fin dai tempi di Essere John Malkovic o di Eternal Sunshine of Spotless Mind (da noi storpiato con Se mi lasci ti cancello) la sua creatività mista a surrealismo, che lo ha reso un pò il Lynch delle “parole cinematografiche”, è per me garanzia di certezze per ogni suo script. Ma questa volta si avventura dietro la macchina da presa, passando in prima linea e mettendo in scena una vera e propria sineddoche della vita. Una metafora dell’ uomo, colma di cronologie temporali sovvertite. Ma allo stesso tempo vita sineddoche della morte che riguarda tutti noi ( da qui la battuta agghiacciante del protagonista : “tutti voi state morendo” ). Il protagonista Caden Cotard, uno splendido Philip Seymour Hoffman, è un regista teatrale in preda a disturbi psicosomatici e alla solitudine provocata dall’ abbandono da parte della moglie e della piccola figlia. Si ritrova da solo a meditare sul suo prossimo spettacolo (una prolissa e macchinosa messa in scena della sua vita) e proprio sulla certezza del morire e del non senso dell’ esistenza. E il suo meditare è tutt’altro che lineare. Lo spettatore ben presto si trova coinvolto nella vita di Caden, come se tutto questo fosse in una dimensione parallela fatta delle paure della morte, delle malattie o dell’ invecchiare del protagonista. Ma il personaggio di Cotard è tutt’altro che irreale: è un intellettuale con una semplice grande ambizione (forse mista ad un pizzico di arroganza ed egoismo) quella di recitare la sua vita nei minimi dettagli, soprattutto emotivi, rappresentando così un intero genere umano fatto di solitudine e pensieri negativi che spesso tende a mascherare dietro le cosiddette gioie della vita. E’ talora grottesco infatti il film di Kaufmann perchè dà enorme spazio alle contraddizioni della vita, fatte di oscure coincidenze ( il protagonista si sveglia con le pubblicità alla tv di prodotti sulla chemioterapia o sua figlia fa la cacca verde e solo qualche istante dopo scopre di poter avere una malattia mortale), di gioie del sesso ma anche di depressioni mentali. Synecdoche New York ( il titolo è una crasi di Schenectady New York , luogo in cui è ambientato il film, e la sineddoche) è stato presentato al Festival di Cannes nel 2008 e come ogni film surreale ha destato molte critiche negative che lo hanno considerato, a mio avviso in maniera un pò superficiale, solo un film pretenzioso di uno sceneggiatore geniale che vuole autocompiacere la sua creatività. Ma , in mia opinione, Kaufman voleva solo giocare con quelle che sono le angosce dell’ essere umano, con le sue alienazioni mentali, forse spingendosi in maniera estrema verso una dimensione intellettiva, più che onirica, che va vista con l’occhio della mente più che con quello superficiale del nostro senso visivo. Parafrasando le sue stesse parole, lo dice anche lo stesso regista in una sua intervista affermando che il suo intento era “solamente” il voler rappresentare l’esistenza umana che è fatta molto spesso di idee mentali che “volano” dentro e fuori dalla nostra testa continuamente. E Kaufman rappresenta proprio questo inserendo nel suo film anche giochi di parole (che vanno comprese solo se ascoltate in lingua originale americana) che fuorviano lo spettatore dal senso di quello che viene detto, spingendolo a un grado di comprensione più elevato. Tutto in Synecdoche è costruito sul sostituire appunto un concetto con un altro. Lo stesso concetto di identità personale viene sostituito con gli attori che interpretano il ruolo del personaggio di Caden. E Caden stesso si guarda allo specchio, nella recitazione del suo alter ego, con l’intento di capire maggiormente il suo dolore e la sua ipocondria attraverso l’ausilio immaginativo di un’ altra persona. Capire quindi la verità stessa della vita, fatta di solitudine, malattie, vecchiaia, abbandono da parte delle persone care, fino a farsi divorare da tutte queste cose. Il tutto in un eterno Panta Rei che inevitabilmente porta alla morte e all’ incomprensione di tutto questo eterno malessere del vivere. In definitiva un film veramente drammatico ed esistenziale che nella sua surrealtà intende trovare ciò che non è mai stato più reale di così. E ad ogni nuova visione sicuramente sarà impossibile non trovarne la genialità drammaturgica e sceneggiativa fatta di numerose sineddoche e metafore ( due esempi tra tutti: la moglie che lo abbandona che di cognome fa “Lack” che in italiano vuol dire mancanza; e i continui riferimenti alla cacca come rifiuto del corpo umano che sono simboli del disfacimento del corpo umano che inevitabilmente è diretto verso la vecchiaia e la morte).

( Papà la mia cacca è verde.
Non è un problema tesoro, avrai mangiato qualcosa di verde)

( Personaggi reali o Attori??)

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– Ember il mistero della città di luce (City of Ember) – 2008 – ♥♥♥ –

di

Gil Kenan

Poco importa se il trailer di questo film che lo vende come la nuova fatica dello studio che ha realizzato il film de Le cronache di Narnia ce lo battezza come un fantasy per ragazzi. Pur la storia si concentri su di un’avventura-puzzle intrapresa da tre giovanissimi alla scoperta di ciò che si cela dietro i tanti misteri della cadente città sotterranea di Ember, alimentata artificialmente e messa al sicuro dall’estinzione umana (da cosa venga causata non si sa), la quale è ignara dell’esistenza del mondo, il piacere di vedere questo film risiede in una dedica particolarmente accurata alle luci e i colori, ad una scenografia mozzafiato realizzata da Martin Laing a Belfast nel set più grande del mondo (quello in cui è stato costruito il Titanic di Cameron, per intendersi), alla buona caratterizzazione e scelta di volti per i personaggi narrati originariamente nel romanzo della francese Jeanne Duprau. City of Ember trasuda di fantastici attori di grande esperienza (Martin Landau, Tim Robbins, Bill Murray) e di richiami estetici e non solo a 1984 (sia il romanzo Orwelliano che il film), Brazil di Gilliam, La città dei bambini perduti e Delicatessen di Jenuet e Caro… Per non parlare del più lampante richiamo al mito platonico della caverna. Si inciampa un po’ nell’evitabile creazione di qualche creatura digitale, ma sorvolata questa parentesi e la solita colonna sonora ridondante, la sostanza del film è di natura nobile. Il film non è puro intrattenimento e arrivederci, contiene soprattutto l’essenza della nostra vita, che spesso è conflittuale, in crisi e addormentata da mille comodità e vizi come Ember… I giovani protagonisti, interpretati da Saoirse Ronan e Harry Treadaway, sono convincenti e sembrano usciti appunto da un film di Jeneut. Il regista è Gil Kenan, un ragazzo londinese – ma con ovvie origini mediorientali – coraggioso, che dopo il debutto cinematografici in Monster’s house datosi nelle mani del produttore Tom Hanks e dei colossi d’attori sopra menzionanti, ha portato avanti un progetto discreto e originale.

(Beffardo infingardo sindaco di Ember, interpretato da un sempre ottimo Bill Murray)

(I due giovani protagonisti del film, Lina e Doon, interpreati dalla Ronan e Treadaway)

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– Ex Drummer – 2008 – ♥♥♥ –

di

Koen Mortier

Koen Mortier ha definito il suo film un esperimento musicale. E in effetti in Ex Drummer c’è tanta, forse troppa musica punk belga che ha il pregio però di adattarsi alla violenza straripante delle immagini e al frenetico montaggio. Immerso in una scenografia fatta di atmosfere putride e sporche e di personaggi borderline il film narra dello scrittore borghese Dries (Dries Van Hegen) che mentendo sulle sue capacità di batterista decide di entrar a far parte della scapestrata band punk The Feminist. Formeranno un quartetto di musicisti ognuno con un handicap con il quale convivere senza nessuna possibilità di guarigione. Ex Drummer è basato sul romanzo di Herman Brusselmans e ha come obiettivo finale quello di mostrare allo spettatore come la noia di chi raggiunge il successo e il potere spesso sia usata per manipolare i più disagiati senza i minimi scrupoli. Mortier cura tantissimo la fotografia dei luoghi rendendo le atmosfere brutali e violente ancora più cupe. Senza la minima attenzione verso ciò che è politicamente corretto il regista belga riproduce un susseguirsi di immagini violente e sanguinolente con l’intento di rappresentare un mondo underground (quello dei sobborghi fiamminghi) e la perdizione che la conoscenza del diverso provoca nell’ indole di Drier. Lo stile registico ricorda spesso il Trainspotting di Boyle (invece dell’ Inghilterra però qui siamo in Belgio) con immagini scomposte e inquadrature sperimentali, come quella rovesciata che ritrae di frequente il cantante Koen (Norman Baert), balbuziente e con un irrefrenabile odio violento verso le donne. Le sequenze di violenza invece portano spesso a rammentare i personaggi di Arancia Meccanica e l’irriverenza crudele che non rispetta nessuno, siano essi nazisti, gay, potenti, handicappati, uomini, donne o neri. Fin dai titoli di testa del film si evince subito che Ex Drummer non è un film destinato a tutti ma ad un pubblico abituato a film da festival del cinema o dagli stomaci forti. Il film si apre infatti con una sequenza girata al contrario dei protagonisti e con i titoli incastonati come oggetti negli oggetti di scena. Metodo decisamente originale di apertura che sicuramente invoglia lo spettatore a restare a guardare. Questo stile registico ricercato sembra però spesso finire con essere un’ ostentazione di uno spettacolo fine a se stesso che amplifica le violenze e le brutalità in un grand guignol del quale ci si chiede alla fine il suo vero senso. Forse appunto quello di shockare. O, più semplicemente, quello di dimostrare un micro ambiente tutto fiammingo nel quale le band del luogo sono onorate come le più famose ma finiscono per cadere nel vortice stereotipato di droga, eccessi ed alcol. Un film anarchico, zeppo di musica punk (almeno mezz’ora del film è dedicata alle esecuzioni della strampalata band), e che mostra attraverso le sue visioni un mondo contemporaneo fatto anche, purtroppo, di micro realtà violente.

( La sequenza rovesciata che ritrae il leader balbuziente della band)

(Uno dei frequenti momenti di esibizione musicale dei The Feminist)

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–  Juno – 2008 – ♥♥♥ e 1\2 –

di

Jason Reitman

La cosa che salta subito all’ occhio, fin dalle prime scene è che la sedicenne Juno è diversa. O almeno viene vista come una diversa dalle persone della piccola realtà urbana nella quale vive. Non ama le cose scontate e preferisce sperimentare, scoprire e fare tutto ingenuamente per gioco. Ma da questo gioco la realtà fa irrimediabilmente capolino e la costringe a una gravidanza inaspettata e non voluta. Ma soprattutto una gravidanza alla quale non è pronta. Ma  con spirito decisamente adulto decide responsabilmente di trovare una famiglia che adotti il futuro nascituro. Ed è da qui che il mondo di Juno si scontrerà con tutto il resto. Si scontrerà con il perbenismo e le formalità che lei tanto odia, ma riuscirà a farsi amare (forse proprio per il suoi modi decisamente irruenti e privi di ogni velo sociale) da tutti. E’ sicuramente un personaggio ben costruito quello di Juno. Una sedicenne atipica e sfacciatamente a suo modo adulta e intelligente, che ama dire le cose in faccia e si disinteressa totalmente di cosa possa apparire giusto o sbagliato. Merito di questa forza nel personaggio della protagonista va alla sceneggiatura sicuramente ben costruita di  Diablo Cody (che gli è fruttata l’Oscar nel 2008), in grado inoltre di far riflettere lo spettatore su una tematica come quella delle gravidanze inaspettate in maniera ironica e leggera senza mai per un attimo cadere nella pesantezza. Juno si porta dietro il fardello di avere un nome (quello della Dea Giunone) di una donna spesso tradita dal marito Zeus ma che non si arrende mai. Ed è proprio così che la piccola Juno affronta le sue situazioni quotidiane con tenacia  instancabile, con una lingua sempre pronta alla risposta più irriverente e quell’ irrefrenabile voglia di non essere condizionata da nessuno. Complice ne è il visino ingenuo ma allo stesso tempo deciso della giovane attrice Ellen Page che cresce (pur non abbandonando la sua ingenuità di fondo) insieme al suo pancione. Il regista Jason Reitman utilizza una colorazione decisamente accesa ed estremamente satura come a voler sottolineare ancora maggiormente il mondo fuori dalle righe nel quale vive la protagonista. Juno è un film divertente in grado di parlare di tanti argomenti attuali che vanno dalle famiglie allargate alle adozioni, dalle gravidanze inaspettate agli aborti. E centro di tutto è anche questo indesiderato “fagiolino” che la stessa protagonista non sa come definire. L’evoluzione dei personaggi è anche quella estremamente ben architettata così da far apparire i personaggi che all’ inizio sembrano più simpatici o maturi come quelli decisamente paurosi e immaturi alla fine e viceversa ( esempio perfetto ne sono la coppia Loring che si assume la responsabilità di adottare il futuro bambino). E la giovane sedicenne Juno anch’essa evolverà, fino a capire alla fine che nonostante il suo processo evolutivo è stato al contrario (“Lo so, bisognerebbe innamorarsi prima di riprodursi” è quello che afferma alla fine Juno) l’importante è trovare un proprio guscio perfetto nel quale vivere, ritagliandosi una fetta di felicità un pò “giunonica” in questo controverso pianeta del quale tutti siamo protagonisti.

( Volete voi il mio fagiolo?)

( Riprodursi e dopo innamorarsi?)

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– Ultimatum alla terra – 2008 – ♥ e 1\2 –

di

Scott Derrickson

Remake del classico di fantascienza diretto da Robert Wise, Ultimatum alla terra (The day the earth stood still – Il giorno che la terra si fermò) è un film su una invasione aliena messianica. Il messia in questo caso non è certo Dio, ma un alieno-uomo di nome Klaatu (Keanu Reeves) giunto sulla Terra a bordo di una sfera intergalattica come rappresentante di un gruppo di popoli alieni che invece di distruggere il nostro pianeta, lo vogliono salvaguardare dalla natura distruttiva radicata nell’uomo che lo sta portando lentamente alla rovina. Il salvataggio che si vuole mettere in atto consiste nel raccogliere tutte le specie animali e vegetali in altre sfere spaziali aliene sparse per il globo, insomma delle arche di Noè, annientare completamente l’uomo, e poi ripopolare la Terra sperando che possa ripartire con migliori possibilità di successo. Se questa premessa sembra originale, siamo messi male. La trama che è caratterizzata da una incoerenza disarmante e da un delinare i pochi personaggi protagonisti in modo assolutamente piatto e scontato, non tiene in piedi il film. L’inerzia che è presente come vocabolo solo nel titolo originale, se deve essere una qualità e un pretesto per raccontare una storia allegorica sull’incapacità dell’uomo di fare qualcosa di buono se non in momenti di disperata crisi, bisogna saperla raccontare con un certo estro e vena poetica. Il film di poetico invece ha ben poco. Se Jennifer Connelly fa di tutto, pur fallendo, per interpretare una madre luttuosa simultaneamente alle prese con un figliastro amareggiato e ostile verso di lei e con l’arduissimo lavoro di “mediazione culturale” con Klaatu, Reeves nei panni dell’alieno è ridicolo e poi sembra una figura estrapolata pari pari dalla trilogia fantascientifica Matrix, che al di là delle sue doti recitative su cui si può discutere l’ha reso tanto popolare e amato dal pubblico, in particolare quello femminile. Se può essere d’interesse a qualcuno, Kathy Bates nel film interpreta un segretario alla sicurezza che fa le veci del presidente: la donna inizialmente sembra molto ostile e non aperta al dialogo con gli alieni, ma alla fine sarà lei stessa a chiedere via telefono al presidente di provare un dialogo. Il figlio di Will Smith, Jaden, in questo film debutta senza avere a fianco la protezione del padre, ma guarda caso il suo personaggio non fa che lamentare l’assenza del padre… L’ormai veterano John Cleese fa una comparsata nel ruolo di un matematico vincitore di un Nobel che si mette a fare una sorta di gara d’intelligenza con l’alieno e che suggerisce la soluzione finale del film ossia che come uomini siamo recuperabili e degni di una seconda possibilità. Il film, pur diventando d’azione solo nel finale, vorrebbe mettere il pubblico nei panni di Klaatu e questi personaggi per farne comprendere la loro infinita bontà umana, ma il risultato è che almeno questo spettatore qua non ha provato alcuna empatia. Gli effetti speciali e certe soluzioni visive, come lo sciame di insetti distruttivo e le sfere intergalattiche, non sono certo da buttare. In fondo se a Hollywood (con l’ingaggio della casa produttrice di effetti Weta Digital, per capirsi quella di Peter Jackson e Il signore degli anelli) sanno fare bene qualcosa, quello è proprio l’illusione, lo spettacolo da baraccone. Tuttavia non basta di certo a rendere questo film godibile neanche dal più scanzonato spettatore avido di fantascienza ed evasione. Anzi, il film questo non sembra volerlo proprio. Il suo più grande difetto risiede nel fatto che Ultimatum alla terra si pone, con grande presunzione, come parabola bella e buona. In un momento di crisi mondiale come questo, anche solo rischiare di indurre il popolo a credere che esistano esseri superiori capaci di salvarci, è di una crudeltà disumana. È un peccato, perchè invece l’originale degli anni 50 (tratto comunque dal romanzo di Harry Bates) diretto dal regista di West side story pur essendo involontariamente comico e indubbiamente meno spettacolare, almeno intratteneva e oggi è considerato un cult fra i più favoriti nel genere fantascientifico, citatissimo in numerosi film.

('Va bene che Klaatu è alieno e senza sentimenti, 
ma trovare un interprete un po' più espressivo no, eh?' 
'Ma amore, lui è Keanu Reeves, quello di Matrix... 
Non ha bisogno di recitare!')

(Per impedirvi di distruggere il pianeta Terra, 
dobbiamo distruggere voi umani!)

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– Changeling – 2008 – ♥♥♥♥ e 1\2

di

Clint Eastwood

Nel 2008 Clint Eastwood, reduce dal grosso lavoro a un doppio film sulla battaglia di Iwo Jima, ha sfornato un altro piccolo gioiello in cui il protagonista è un personaggio femminile, come in Million dollar baby di quattro anni prima, interpretato da una Angelina Jolie totalmente inedita. La storia, che si svolge a Los Angeles a cavallo fra gli ultimi anni 20 e gli anni 30, è un terrificante ritratto americano che si concentra allo stesso tempo su temi sociali e politici importanti e su di una vicenda privata realmente esistita che vide Christine Collins, donna nubile madre di un bambino, impegnata per tutta la propria vita in una lotta senza esiti positivi per ritrovare il figlio scomparso. Il titolo Changeling per noi enigmatico ha due significati nella lingua inglese, ma quello che ci interessa di più riguarda un mito del folklore nordeuropeo concernente la sostituzione da parte di elfi e creature simili di bambini normali con i propri figli. Nel film Christine lavora sodo come supervisore in una compagnia telefonica e si muove leggiadra su dei pattini come le sue colleghe, ma la sua vita e quella del figlio non è affatto leggiadra. Ogni gesto quotidiano è il riflesso della disperazione lasciata su queste due persone dall’abbandono del padre. Christine fa di tutto per rendere il figlio un ragazzino spensierato come gli altri, ma le cose non stanno così. Un giorno è costretta ad andare a lavoro nonostante si trattasse della sua giornata libera che avrebbe dovuto passare insieme al figlio andando al cinema (ricordiamoci che la Tv allora non esisteva!). La sera, al suo ritorno a casa, il figlio non ci sarà più e scomparirà nel nulla. La donna comincia a cercare il bambino, ma passano mesi e mesi prima che la polizia di Los Angeles lo ritrovi. Quando la donna si reca alla stazione per riabbracciare il figlio, si accorge immediatamente che non si tratta di lui. Tutti quanti lo sanno che ha ragione, ma la polizia non può passare per incompetente e gradualmente fanno passare la donna per una matta. Christine per un breve ma intenso periodo finisce in manicomio, ma grazie all’aiuto del reverendo Gustav Briegleb (un John Malkovich ottimo), predicatore radiofonico che si interessò alla sua causa da subito, la donna, insieme a tutte le altre detenute, riesce ad uscire nonostante qualche elettroshock e a svelare la corruzione della polizia di Los Angeles. Nel frattempo però vengono ritrovati 20 corpi di bambini sepolti e naturalmente Christine teme il peggio riguardo il proprio figlio scomparso. L’unico superstite ai rapimenti di uno spietato killer psicotico racconta tutto, anche perchè costretto visto che alcuni degli omicidi sono avvenuti per mano sua, e testimonia di essere abbastanza sicuro dell’uccisione del figlio di Christine. Northcott (l’attore Jason Butler Harner) è l’uomo responsabile dell’uccisione di questi venti figli scomparsi, viene portato in tribunale e Christine segue la sua vicenda fino all’ultimo senza mai esprimere apertamente un giudizio. Quando l’uomo verrà condannato alla pena di morte (che, ricordo, attualmente su 50 stati americani è stata abolita solo in una dozzina di essi), si rifugia nella religione come accadrebbe a molti e rivela a Christine in un fugace scambio di parole che suo figlio era un angelo e che lui non l’ha ucciso. Ciò risveglia in Christine la voglia di indagare. Proprio prima dell’esecuzione, l’uomo le dà la possibilità di parlare con lui, ma quando Christine si fa viva per farsi dire la verità, lui non avrà più voglia perchè vede solo la sua morte avvicinarsi. Christine sopravvive al tempo come può, vive in una prigione invisibile che si è creata e della quale forse non può fare a meno. Ma non perde mai la speranza di ritrovare un giorno il figlio, specie quando nel finale uno dei ragazzi scomparsi ritorna e racconta di come lui, il figlio di Christine e un altro tentarono la fuga. Il film, come tutti quelli di Eastwood, è un prodotto hollywoodiano classico, confezionato abilmente come un bijou da proporre agli Oscar per farsi premiare in particolare la partecipata interpretazione dell’Angelina Jolie, ma al suo interno l’occhio del cineamatore vi troverà istantaneamente una grande ricerca sotto molteplici aspetti. Al di là della squisita presenza della Jolie, dei costumi e delle scenografie che riscostruiscono ad hoc l’epoca, al di là dell’illuminazione e fotografia di stampo espressionista di Tom Stern c’è una ricerca da parte dello sceneggiatore Straczynski e del regista quasi ottantenne Clint Eastwood nel voler raccontare una storia dura, anzi atroce, sul Potere e le sue vittime con toni, tempi e strutture semplici, essenziali e al contempo raffinati, senza mai eccedere o sfociare nel grottesco o il ridicolo. Changeling è una continua sorpresa e un prolungamento del tempo che, privo di virtuosismi registici alla Hitchcock in cui si gioca con la suspense o il colpo di scena, vuole accentuare l’universale, incommensurabile pena del vivere che si manifesta nell’attesa e nell’immobilità. La pioggia di nomination c’è stata, i premi un po’ meno, anzi zero. Eastwood si conferma comunque con questo e il film successivo, Gran Torino – quello invece sì che di premi ne ha ricevuti – l’unico vero maestro hollywoodiano d’oggi rimasto in vita che riesca veramente a lavorare dall’interno del sistema facendo quello che più gli aggrada e dicendo senza troppi giri di parole quello che pensa. Curiosità, dai film di Eastwood traspare spesso uno sguardo oggettivo dei vari schieramenti politici autoattuabili nelle varie classi sociali. Quello sguardo trasuda di uno smaccato spirito liberaldemocratico quantomeno, eppure Eastwood non ha mai nascosto di aver sempre sostenuto i Repubblicani…

(E' raro in questo film vedere Christine (la Jolie) 
senza indosso un cappello!)

(L'incontro finale fra Christine e il detenuto Northcott)

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– I Demoni di San Pietroburgo – 2008 – ♥ –

di

Giuliano Montaldo

Giuliano Montaldo non stava dietro la macchina da presa da quasi 18 anni. E si vede. In una gelida San Pietroburgo dell’ 800 il regista italiano delinea la figura del celebre scrittore Dostoevskij, tra angosce, ricordi tormentati e complotti rivoluzionari contro lo zar. Sicuramente il film gode di qualche sporadica scena emozionante, anche se deve il sussulto di questa fugace sensazione più alle parole tratte dai capisaldi della letteratura dello scrittore russo che alla sceneggiatura del film stesso. Per il resto I demoni di San Pietroburgo si presenta agli occhi forte di una fotografia ben curata ma carente nei ritmi cinematografici. Perchè sarebbe meglio dire, guardando il film di Montaldo, che gli attori e sopratutto il protagonista Miki Manojlovic si muovono lentamente sul palcoscenico, ma poi invece ci si rende conto che non siamo a teatro. Ed è proprio per questa ragione che riesce difficile tenere gli occhi aperti fino alla fine e che le quasi due ore di questo film finiscono per apparire eterne. Fanno di gran lunga miglior figura Roberto Herlitzka, Anita Caprioli o Filippo Timi relegati a piccolissimi ruoli, ma che proprio per la loro limitatezza di ruolo si apprezzano sicuramente di più per le loro doti. Certamente, anche in questo caso, più teatrali che cinematografiche. Il film risulta spesso forzatamente melodrammatico e vaga tra flashback e atmosfere soffuse per far riflettere lo spettatore sul ruolo degli intellettuali nella collettività, sulle rivoluzioni politiche, sulla libertà e sulla religione e  Dio. Per il vero Dostoevskij però questa dimensione religiosa fu molto importante sopratutto nei suoi ultimi anni di vita. Nel personaggio di Montaldo invece si vede più un suo rifiuto della violenza ma un costante impegno nella lotta e nella rivoluzione, seppur più con le parole che con l’azione. Ed è per questo che si oppone anche all’ uso della violenza da parte dei reazionari studenti che progettano l’ annientamento della famiglia imperiale. I Demoni di San Pietroburgo è un tentativo di mostrarci il confine tra giustizia e prepotenza , tra rispetto per l’ Uomo e violenza. Ma con questi ritmi che ricordano spesso quelli di uno sceneggiato RAI ( il film peraltro è prodotto da RAI Cinema) difficilmente riesce a comunicare più che una sensazione di stanchezza agli occhi. Di noia. Risvegliata solamente dagli sporadici passi di letteratura di uno (ma non il solo!) tra i più validi scrittori slavi. Niente di nuovo.

(Dostoevskij calca il palcoscenico cinematografico)

(Mentre Herlitzka viene relegato ad un ruolo marginale)

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– La Banda Baader Meinhof – 2008 – ♥♥ e 1\2 –

di

Uli Edel

Fine anni 60 e inizio anni 70. In Italia c’erano le Brigate Rosse. In Germania la RAF e in seguito il terrorismo della banda Baader Meinhof. Alla base c’era un comune movimento basato sull’ opposizione al dilagante imperialismo americano di quegli anni. Un imperialismo che permetteva agli USA di governare su ogni azione politica e che assoggettava i paesi europei a un tirannico volere, come le sovvenzioni a Israele o la guerra in Vietnam. Uli Edel si confronta con una parte della storia tedesca scomoda che narra della lotta armata del movimento Rote Armee Fraktion (RAF) seguendo le coordinate del libro Der Baader Meinhof Komplex di Stefan Aust. Il film vuole quindi essere una ricostruzione nella ricostruzione della storia di un movimento terroristico. Si articola in due parti: una prima parte narra della nascita e crescita del movimento fondato dalla giornalista Ulrike Meinhof , da Andreas Baader e Gudrun Enslinn in seguito all’ uccisione di uno studente da parte delle forze di polizia durante una violenta manifestazione contro lo scià di Persia; la seconda invece espone la detenzione dei suoi fondatori e la nascita parallela di una nuova generazione di militanti incauti e che utilizzano il nome dei loro fondatori solo per manifestare violenza su violenza a volte anche travisando gli ideali stessi del movimento e abbandonando al loro triste e tragico destino i capi della vecchia RAF. La grossa pecca del film risiede nella quasi totale mancanza di introspezione dei personaggi. Edel infatti si limita a tradurre in linguaggio cinematografico una cronologia di fatti senza la minima attenzione al perchè i personaggi sono giunti a un tale epilogo o senza approfondire minimamente la strada della violenza imboccata da un’ affermata giornalista come la Meinhof. E anche il consolidato attore Bruno Ganz nel ruolo di uno dei capi della polizia  in realtà “complice” appare anonimo e da poco lustro delle sue doti recitative in passato ben messe in mostra. Inoltre spesso la regia cade in un impronta fin troppo televisiva che trae forza da immagini di repertorio sicuramente importanti ed essenziali quanto però molto da fiction. La Banda Baader Meinhof a tratti ricorda il Romanzo Criminale di Placido anche se molto meno gradevole perchè non arricchito dalla forza introspettiva dei personaggi o dai ritmi più serrati del film nostrano. Uli Edel da vita ad un film poco equilibrato che prende le parti evidenti del movimento rivoluzionario, ma non quelle dei terroristi, in una Germania che è sempre affascinata da personaggi politici pericolosi immemore spesso del suo passato nazista. Un discorso riaperto quello dei tedeschi nei confronti di questo movimento ma sopratutto del processo farsa messo in atto dai capi tedeschi contro i protagonisti arrestati della RAF. Capi fondatori ufficialmente risultanti suicidi ma che ufficiosamente negli archivi storici tedeschi urlano un eco omicida da parte dei loro carcerieri. Sicuramente interessante da vedere per la parte storica che pochi conoscono e che il cinema tedesco ha avuto il coraggio di riportare alla luce e anche per le solide interpretazioni di due tra gli attori emergenti più noti in terra teutonica come Moritz BleibtreuMartina Gedeck. Peccato non convinca fino in fondo, come meriterebbe un film di questo genere.

(Tutto inizia dall' omicidio di uno studente 
durante una manifestazione, da parte della polizia)

( Per finire in un processo farsa )

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