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Posts Tagged ‘mockumentary’

– Il Quarto Tipo – 2010 – ♥ e 1\2 –

di

Olatunde Osunsanmi

Milla Jovovich introduce questo film tenendo a specificare che gli avvenimenti che seguiranno sono tutti veri. Questa è sicuramente una scelta che ha il solo scopo di sensibilizzare il suo pubblico alla visione di materiale realmente accaduto ( o presunto tale) e quindi alzare dentro la nostra testa il livello di adrenalina. E non a caso questa è proprio la linea che molti film horror moderni stanno adottando forse per trasmettere l’ illusione agli spettatori che tutto sia vero, e di conseguenza tenerli maggiormente incollati agli schermi. Tutto nacque anni fa con Blair Witch Project e dopo quello molti altri film adottarono la stessa linea di “terrore” entrando così a far parte di una schiera di horror ben poco originali. C’ è da dire che le atmosfere di questo Il Quarto Tipo, che riprende il termine dal celebre film di Spielberg aggiungendo però un grado in più, sia per il loro essere cupe o per le immagini mosse e amatoriali della parte che si dice sia reale funzionano e riescono a raggiungere il risultato da loro ambito: spaventare lo spettatore. Questo effetto però lo si deve soprattutto grazie alle scene pseudo amatoriali che a quelle fictionali prive del tutto di uno spessore sceneggiativo e recitativo, con una Milla Jovovich che molto spesso non sa se ci crede nemmeno lei nella parte che sta interpretando. I riferimenti e le citazioni a film precedenti si consumano e spaziano dalle numerose sequenze in corsa in stile Blair Witch a quella d’ autore tratta da Twin Peaks (“I Gufi non sono sempre quello che sembrano”). Nella storia vengono inseriti elementi di psicoterapia e l’ intero dubbio amletico sui rapimenti alieni si sviluppa proprio grazie a delle sedute terapeutiche durante le quali la psichiatra Abbey ipnotizza uno dei suoi pazienti tentando di trarre da lui memorie inconsce di questo cosiddetto rapimento alieno. Il risultato è che anche lei sembra venir rapita e l’ intero film si tramuta in un turbinio di urla e di riprese in movimento, intervallate da split-screen  frequenti e di dubbia utilità (gli attori in qualche modo dovevan pur recitare) delle immagini reali e di quelle finzionali. Insomma tutto creato allo scopo unico di far immedesimare lo spettatore ma molto meno con quello di creare una sceneggiatura vera e propria . Verrebbe quasi da identificarlo come un mockumentary questo Il Quarto Tipo, se non fosse che l’ intera opera di produzione lo sponsorizza come un horror. E allora forse è solamente un mezzo per far sussultare lo spettatore e introdurlo nel dubbio dei rapimenti alieni. Ma quello che personalmente mi chiedo è: avevamo veramente bisogno di questo dubbio? O era meglio restare con l’ immagine aliena di ben altre opere più poetiche come E.T.?

(Una delle poche scene che funziona...ma solo per far sussultare)


(Molto meno lo è la Jovovich)

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– Brüno – 2009 – ♥ e 1\2 –

di

Larry Charles

Si fa di tutto pur di riconquistare la fama e il successo. Anche cambiare orientamento sessuale se si è gay. Soprattutto poi se ci si trova negli Stati Uniti: la patria del successo slegato però da ogni sua caratteristica artistica e maggiormente incentrato nell’ apparire e nell’ essere politically correct. Questo è l’ intento di Larry Charles e del talento ironico di Sacha Baron Cohen che dopo aver decisamente sorpreso con l’ esilarante Borat ritorna nei panni di un gay austriaco modaiolo, licenziato dai media del suo paese, e deciso ad emigrare negli States alla ricerca di gloria. Ma guardando questo film viene più da pensare che il successo di Borat sia stato soprattutto sfruttato e copiato che valorizzato e rimodellato ai fini di un’ altra causa. Anche in questo caso è sempre il sistema americano ad essere sotto accusa. Il suo showbiz incentrato sul falso perbenismo, le discriminazioni nei confronti degli omosessuali e le ancora presenti discriminazioni razziali di colore presenti anche nei programmi televisivi. Ma che senso aveva trattare tutto questo in 80 lunghissimi minuti colmi di scene di pseudosesso omosessuale inconsueto o di comportamenti eccentrici, irriverenti del suo protagonista? In questo caso il plot è decisamente slegato e fatto di scene fini a se stesse, più televisive in stile real tv che cinematografiche. La forza di Borat stava tutta nel contrasto tra mondo occidentale e mondo sottosviluppato dell’ est. Qui il confine era molto più sottile trattandosi Bruno di un personaggio estremamente occidentalizzato, anche se all’ ennesima potenza e privo di ogni inibizione. E per fare questo non basta copiare le linee drammaturgiche di Borat (anche Bruno viaggia in America con il suo assistente, solo che questa volta se ne innamora anzichè lottar con lui sul letto nudo). Non basta enfatizzare al massimo scene di sesso scabroso per scandalizzare o inquadrare tutto come approccio cinematografico modernista. La settima arte cinematografica credo abbia molto più bisogno di sofisticatezza e di cura nei dettagli sceneggiativi  che di grossolane esibizioni di irriverenza sessuale. Brüno pretende di essere un mockumentary ma non risulta assolutamente credibile come tale, poichè è inverosimile che la stessa scena venga ripresa da più di una telecamera. E non bastano nemmeno le lodi tessute a Sacha Baron Cohen da parte del re della commedia demenziale Mel Brooks per salvare il giovane attore trasformista dalla sua prestazione in questo suo ultimo film. Perchè un comico bisogna anche che si rinnovi ed evolva. Non basta limitarsi a scopiazzare sempre personaggi simili irriverenti e libertini sessualmente per essere definito un comico completo. Serve un talento artistico ben più complesso. Speriamo che Baron Cohen possa capirlo.

(Uno dei tentativi di Bruno di arrivare al successo: 
Abbassarsi i pantaloni davanti ad un senatore repubblicano)

(Ennesimo tentativo: Adottare un bambino africano come ha fatto Angelina Jolie)

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– District 9 – 2009 – ♥♥♥♥ –

di

Neill Blomkamp

District 9 è un’ intera metafora sulla xenofobia e sul razzismo tramutata in linguaggio fantascientifico. E’ un film che parla di clandestinità e immigrazione rendendo lo spettatore compartecipe delle emozioni dei protagonisti, seppur alieni o mutanti. Si perchè gli umani in District 9 sono la razza cattiva e che discrimina, caratteristica purtroppo non lontana dalla realtà in taluni casi. Blomkamp costruisce il suo film interamente come se questo fosse reale e non vuole che lo spettatore pensi che si tratti di pura fantascienza. Intervalla sequenze da fiction e da documentario incorporando stili di ripresa che spaziano dalla telecamera a mano o amatoriale a quella frenetica che ben contraddistingue i film d’azione. Sovvertendo le regole imposte da film dello stesso genere il regista modella gli alieni rendendoli simili ad un incrocio tra cavallette e gamberoni ma ce ne da un’ immagine tutt’altro che spaventosa: li umanizza. E allora non è un caso che invece della scontata Manhattan gli alieni approdino a Johannesbourg, capitale sudafricana di uno dei maggiori avvenimenti storici xenofobi, e che il District 9 dove sono ghettizzati gli alieni nel film ricordi il District 6 nel quale venivano “esiliati” i “negri” durante l’ Apartheid. Ed è proprio pensando a questo che ben presto ci si rende conto che il film non vuole poi essere tanto fantascientifico ma che la storia dei soprusi e delle violenze nei confronti degli alieni è reale se riferita ai milioni di casi di discriminazioni razziali che vi sono in tutto il mondo. Anche non lontano da noi dove i campi – rom o i campi di accoglienza vengono visti come delle bidonville o delle cellule di sviluppo della criminalità. E conforme alle leggi italiane anche nel film gli alieni vengono spostati lontano dai centri abitati (esattamente come gli extracomunitari), perchè l’ integrazione è qualcosa di dannatamente difficile da concepire per l’essere umano. E’ di certo più semplice la disintegrazione. E allora per far capire tutto questo intervengono nel film sequenze che hanno del “disumano” (come quella del rogo delle uova aliene), ma che vengono compiute proprio dalla razza umana. Il tutto mostratoci sia come se fosse un mockumentary che allo stesso tempo la dolorosa storia di Wikus che a causa della sua stessa spavalderia muta in alieno e inizia ad essere trattato dagli umani come pura merce di scambio o di sperimentazione. Frequenti sono i riferimenti alla mosca di Cronenberg o al robottino di Wall e che rovistava nella spazzatura proprio come fanno gli alieni del distretto 9. E il protagonista alieno Christopher diventa paradossalmente l’ unica figura veramente umana del film, sovvertendo le regole tra ciò che è brutto visivamente e ciò che lo è di fatto. Diviene un umile eroe che cova come unico sogno quello di ritornare a casa con suo figlio, dopo 20 anni di soprusi e imposizioni da parte degli uomini. District 9 è sicuramente un ottimo spunto per riflettere su come spesso non sia la sola diversità a creare criminalità ma su come quest’ ultima sia soltanto una conseguenza delle condizioni disumane di “accoglienza” di colui che è “extraterrestre” o “extracomunitario”.

( L' ipocrita scultura all' ingresso del distretto 9)

( Comunicazione di sfratto dal District 9)

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– Live! – Ascolti record al primo colpo – 2009 – ♥♥♥♥  –

di

Bill Guttentag

L’occhio della televisione una volta insediatosi attivamente nella nostra vita rischia davvero di entrare nelle nostre coscienze e offrirci uno scenario che ben presto potrebbe trasformarsi in qualcosa di apocalittico. Giudicare questo film prodotto e interpretato dalla stessa Eva Mendes di scarsa originalità nella tematica mediatica di certo non sarebbe un ottimo motivo per non valutarlo come un ottimo film. Perchè Live! affronta in maniera del tutto convincente una delle problematiche più preoccupanti della nostra attuale società e sopratutto di quella americana. Realtà mediatica della quale, fin dagli anni ’80 e dai tempi del Drive in, noi italiani, purtroppo, abbiamo dimostrato di esserne stati influenzati, sopratutto per le produzioni negative che per quelle positive. Il già premio Oscar Guttentag attraverso uno stile documentaristico (tecnica che gli ha fruttato l’ambita statuetta) ma che quando diventa finto viene definito mockumentary ci parla dell’evoluzione di quello che viene definito lo show che farà la storia della televisione. La prima ora del film è interamente girata con telecamera a mano quasi a voler documentare quello che c’è dietro la creazione di uno show nel quale sei concorrenti si sfidano al gioco della roulette russa. Cinque vinceranno 5 milioni di dollari a testa, mentre uno semplicememente morirà. Katy Courbet (Eva Mendes) è la produttrice e creativa senza scrupoli che idea il programma difendendolo da ogni ostacolo e seguendo solamente i suoi ambiti desideri di audience. Live! è un film, a mio parere con piccole chicche registiche e tematiche, che spesso possono essere tralasciate dallo spettatore meno attento.Come prima cosa la scelta dei concorrenti. Rappresenta esattamente ciò che il pubblico americano si aspetta e ci invita a riflettere come tutto nella televisione (sopratutto nei Reality) sia fintamente architettato. E quindi troviamo il padre di famiglia pronto a sensibilizzare i cuori di tutte le famiglie medie, il messicano omosessuale, il ragazzo di colore che ambisce a diventare uno scrittore, la modella e attrice di successo che si improvvisa artista, la cheerleder che sogna di diventare attrice e il tipico ragazzo americano belloccio e surfista. A ogni spettatore il suo eroe da tifare. Il falso regista del film (Rex) è uno dei protagonisti di Live! che se inizialmente vanterà una morale e dei valori contrari allo show in seguito quando Katy gli offrirà metà della mela che lei stessa ha appena mangiato inizierà ad entrare nel meccanismo televisivo, e lo resterà in futuro. Quella mela rappresenterà la mela marcia della televisione di chi, pur di raggiungere ascolti, denaro e notorietà , porterebbe in scena addirittura la morte. La morte che per anni è stata oggetto di fascinazione di ogni uomo. Se si pensa ai combattimenti dei gladiatori nell’antica Roma, alle esecuzioni in pubblico attraverso la ghigliottina in Francia, o alle impiccagioni anche oggi non si fa fatica a credere che lo scenario “documentato” da Guttentag non possa essere poi così tanto fantascientifico. E c’è anche l’ allusione alle immense contraddizioni della televisione che pur essendo chiamata piccolo schermo, ben poco ha ormai a che vedere con il grande schermo del cinema. Non basta quindi il poster del capolavoro felliniano de La Dolce Vita che Katy espone nel suo ufficio a fare del suo programma un altrettanto meravigliosa opera. Guttentag ben riesce a tenere alta l’adrenalina a tal punto che spesso da spettatore si rischia di dimenticare che tutto sia una finzione e si crede veramente che l’assurdo possa essere realtà. Alla fine il programma si farà e il vero finale (non del programma) sarà decisamente un colpo di scena. Proprio quello che Katy Courbet non si aspettava ma che di certo porterà il suo Live! ad ottenere il record degli ascolti

( Katy Courbet medita sul suo show, sullo sfondo il regista Rex)

( Vincerà il concorrente messicano??)

Pubblicato su Cineocchio


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