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Posts Tagged ‘festival di berlino’

– About Elly – 2010 – ♥♥♥ e 1\2 –

di

Asghar Farhadi

E’ insolito ultimamente che ci giunga un film iraniano che non parli di Teheran o dei villaggi interni nei quali regna la povertà più estrema. In questo sorprendente film di Farhadi, infatti, troviamo tutti gli elementi capaci di renderlo un film decisamente differente: il dinamismo nei movimenti di macchina e una sceneggiatura ricca di elementi nascosti che portano lo spettatore ad analizzare ciò che vede. Dopo un’ inizio apparentemente lineare e con toni da commedia, inaspettatamente (dopo più di mezz’ ora) il regista iraniano ci introduce il dramma della sparizione della giovane maestrina Elly, invitata ad una gita sul Mar Caspio dalla madre di una delle bambine dell’ asilo dove insegna. Il cambio di registro da quel momento è piuttosto evidente e Farhadi ce lo demarca con improvvisi cambiamenti nei movimenti di macchina che passano dall’ essere più statici a diventare dinamici tallonando i protagonisti con frequenti riprese a spalla. Dietro una storia apparentemente normale il regista ci parla di ciò che un regime teocratico come quello iraniano provoca all’ interno degli animi di un gruppo di giovani iraniani, nei quali sembrano essere molto più importanti le rigide regole morali che la verità. Nella struttura sceneggiativa questo About Elly (titolo che da l’ illusione di essere un film leggero) assomiglia molto a L’ Avventura di Michelangelo Antonioni: un gruppo di giovani sono in vacanza, una ragazza scompare e da quel momento in poi tutti i rapporti all’ interno del gruppo sembrano non essere più come al principio. Ma come ho accennato prima, di quella storia che Antonioni raccontava in maniera decisamente esistenziale Farhadi ne fa un pretesto per analizzare le sottintese conseguenze morali di un regime fondato sui doveri morali religiosi. I protagonisti della vicenda sono differenti dai soliti personaggi che siamo abituati a vedere nei film iraniani, perchè sembrano liberi o quanto meno sembrano indifferenti alle costrizioni politiche in atto a Teheran, così tanto da concedersi un week end spensierato e lontano dalle proprie abitudini. Lo stesso protagonista maschile Ahmad è emigrato in Germania ed è reduce da un divorzio con una tedesca che farebbe ben sperare sulla sua differente apertura mentale. Ma è proprio dall’ inatteso che viene fuori una cruda verità: quella che dimostra a tutti loro ( e anche a noi spettatori) che molto spesso è più difficile liberarsi dei propri pregiudizi e dei propri scrupoli religiosi che di un regime politico. Quella bugia finale detta dalla protagonista Sepideh ( una molto espressiva Golshifteh Farahani) rappresenta proprio il crollo di una dignità femminile che in quel paese mediorientale sembrerebbe non riuscire ad essere rispettata come si dovrebbe e che spesso è calpestata proprio all’ interno del nucleo familiare dai rappresentati maschili di questo stesso. La regia sceglie di posizionare  più personaggi davanti la macchina da presa, proprio per farci gustare la coralità delle vicende, che coinvolgono tutti i protagonisti, e sceglie dei dialoghi spesso concitati e in preda alle emozioni dei personaggi che purtroppo sono distrutti da un impietoso e pessimo doppiaggio italiano che sceglie (in maniera del tutto inconcepibile) di doppiare anche i momenti di canto o di gioco rendendo così quei particolari momenti freddi e teatrali, ma soprattutto con un risultato finale che comunica allo spettatore finzione scenica e non il realismo che al contrario gli attori sanno ben esprimere con le loro espressioni. Ottime sono due scelte di sceneggiatura: quella del doppio incidente in mare che ci fa porre attenzione prima su un fatto (la sparizione del bambino) e improvvisamente su quello che risulta poi essere più importante (la sparizione di Elly); e quella del cambio repentino di registro da commedia a dramma con delle venature tipiche da film giallo. About Elly è, infine, un bel film ricco di efficaci simbolismi, come quelli racchiusi nella villa a mare che ha evidenti cedimenti (un pò come l’ Iran) ma che se si vuole possono essere riparati, o ancor meglio la metaforica scena conclusiva finale del film che vede tutti i protagonisti impegnarsi a spingere invano un’ auto dalla sabbia mentre all’ interno della casa ci mostra Sepideh, da sola a combattere con il dolore della sua bugia appena detta. Come a voler sottolineare che con le bugie non si va da nessuna parte, se si vogliono davvero cambiare le sorti di una Storia di una Nazione. Meritato Orso D’ Argento al 59° Festival di Berlino.

( L' attimo antecedente al dramma)

(L' intensa scena conclusiva del film)

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– The Messenger – Oltre le Regole – 2010 – ♥♥♥♥♥ –

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Oren Moverman

Il dolore della guerra è ormai un argomento ampiamente sfruttato dal cinema che molto spesso nasconde le devastazioni psicologiche mostrandoci l’ eroismo militare o in altri casi i meccanismi adrenalinici che vi sono dietro ( The Hurt Locker). In The Messenger, il primo film da regista dell’ israeliano Oren Moverman, che ha vissuto la guerra del suo paese, non vi sono particolari scene di guerra ma sono ben mostrati alcuni degli effetti che questa provoca nei luoghi dove la guerra non si vive in prima persona. Qui le uniche azioni  violente sono caratterizzate dalle invettive più o meno colme di rabbia che i familiari delle vittime di guerra lanciano ai due protagonisti di questo film che hanno l’ ordine di comunicare le tragiche notizie sui figli, mariti o figlie che hanno perso la loro vita per servire la propria patria attraverso l’ espressione più disumana che vi sia al mondo. Il sergente William Montgomery (Ben Foster) è stato rimpatriato a causa di una ferita di guerra agli occhi e ha il compito insieme al  capitano Tony Stone (Woody Harrelson), che già fa questo lavoro da tempo, di notificare le perdite alle famiglie. Will ben presto si troverà a dover di forza affrontare i duplici aspetti del suo disturbo post traumatico da stress derivante dalla guerra e le emozioni nel comunicare il lutto alle famiglie che è costretto da un codice militare e lavorativo a esplicare con la massima freddezza. In questa dualità di emozioni umane sta la forza del film di Moverman che ben sa esprimere, anche grazie a due straordinarie interpretazioni, il dolore umano che spesso non riesce a trattenersi all’ interno di fredde regole ma è comunque destinato in qualche modo ad esplodere. Foster è molto bravo a comunicare questa repressione del dolore per gran parte del film mediante la sua faccia quasi statica ma che grazie ai suoi occhi e ai quasi impercettibili movimenti del viso è in grado di comunicare questa sofferenza interiore. Anche Harrelson (candidato all’ Oscar come migliore attore non protagonista) è decisamente in grande spolvero, ed è abile a dar luce ad un personaggio che si nasconde dietro il cinismo e l’ esternazione di un comportamento superficiale il suo dolore nell’ essere obbligato a condurre una vita lavorativa inchiodata dalle regole. I due personaggi anche grazie al legame , quasi cameratesco, che intraprenderanno alla fine del film saranno quasi irriconoscibili rispetto ai primi minuti. Per Will sarà emblematico e fungerà da catalizzatore anche l’ incontro con una delle vittime del lutto, la moglie di uno dei caduti ( Samantha Morton) che sarà l’ unica ad accorgersi della difficoltà che anche loro attraversano nel dare quel doloroso annuncio. La forza della sceneggiatura (vincitrice dell’ orso d’ argento a Berlino e candidata all’ Oscar) risiede proprio in questa evoluzione che coinvolge i personaggi che attraverso pochi ma mirati dialoghi danno sfogo alle loro vere personalità e ai loro risentimenti celati. La regia di Moverman è molto equilibrata e, soprattutto nelle sequenze in cui i due protagonisti comunicano il dolore alle famiglie, tallona spesso i volti degli attori in scena in frequenti primi piani a girare che disorientano lo spettatore, provocando il medesimo effetto che quei momenti sugli strati d’ animo dei personaggi. Uno dei film sicuramente migliori sul tema della guerra, ma soprattutto sugli effetti devastanti che questa ha sui civili e su coloro che non la vivono sul campo. Un piccolo capolavoro che sicuramente serve a far riflettere sul “non senso” di quella che è la peggiore manifestazione del potere , della prevaricazione, dell’ avidità ma al tempo stesso della debolezza dell’ umanità.

(Comunicare il lutto)

(Due uomini soli con i propri fallimenti)

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– L’ Uomo nell’ Ombra – 2010 – ♥♥♥♥ –

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Roman Polanski

L’ ambiguità delle persone e della percezione della realtà è sempre stato un argomento di raro e particolare interesse per Roman Polanski. Un tema che spesso viene dispiegato tra location alquanto surreali e inquietanti, interpretazioni mai sopra le righe ma sempre centellinate per mantenere quel pathos necessario a un film di genere thriller. Perchè GhostWriter (questo è il titolo originale in inglese) non è solamente un riuscitissimo thriller politico ma è anche un ricercato lavoro sulle scenografie e le ambientazioni che non sono per nulla piatte o casuali ma che al contrario sono perfette protagoniste nel ricreare le atmosfere di angoscia e inquietudine che il regista intende esplicare. In questo caso la location è praticamente unica ed è l’ isola nella quale l’ ex primo ministro Adam Lang (Pierce Brosnan) si rifugia per sfuggire alle accuse da parte dei governi internazionali di aver collaborato con la CIA in terribili azioni antiterroristiche che non hanno tenuto conto dei diritti umani. Polanski è in grado di catapultare lo spettatore in un mondo dove la realtà altro non è che macchinazioni politiche, e tutte le vicende quotidiane finiscono per diventare solamente un oggetto di fervide manipolazioni di qualcuno che comunque ha sempre una fetta di potere in più di noi. Il punto di partenza di tutta la sceneggiatura, tratta dal libro omonimo di Robert Harris, che è stato il vero ghostwriter di Tony Blair, è infatti estremamente realistica e mette in mostra quel mondo in cui viviamo dietro al quale quasi nulla è realmente come ci appare soprattutto poi se dietro vi sono interessi politici ed economici. Qui il ghostwriter è interpretato da Ewan McGregor, che è molto abile grazie al suo viso pulito e innocente a dar vita a un personaggio che risulta sempre disorientato nei confronti degli avvenimenti misteriosi nei quali si ritrova coinvolto ed è sempre pronto nelle espressioni visive a subire ogni colpo di scena senza mai anticiparne minimamente la sorpresa. Ma di certo è Polanski il maggior responsabile di questo crescendo di tensione emotiva che nel film è più che evidente e nella quale diventano più importante le parole scritte di una biografia raccontata delle armi di distruzione di massa o del terrorismo. E’ un modo di dire la verità, quello del regista costretto agli arresti domiciliari in Svizzera, che scava nel non detto , nel sottointeso e dietro tutto ciò che agli occhi dei più viene chiamata realtà. Ma soprattutto è una verità che nel finale (da non svelare assolutamente per non perdere gran parte del pathos del film) viene proprio trovata nella narrazione, nella scrittura stessa. Polanski prende spunto nella caratterizzazione del suo personaggio protagonista dal cinema del maestro degli intrighi Alfred Hitchcock, mettendo al centro della scena un uomo semplice che per caso si ritrova ad essere coinvolto in avvenimenti più grandi di lui, ma che con tenacia e curiosità non rinuncia mai al desiderio di verità. Dopo la parentesi più classica di Oliver Twist ritorna al suo modo di fare cinema colmo di incubi e ambiguità e che gli ha fruttato l’ ambito Orso d’ argento per la regia allo scorso Festival di Berlino. Si colloca sicuramente tra i film di maggiore successo di quest’ anno anche se nella forma stilistica non è affatto un film semplice questo di Polanski, ma resta un’ opera ben dosata di uno straordinario regista.

( Le suggestive ambientazioni di Polanski)

( L' intensa scena conclusiva del film)

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